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Uso delle parti comuni da parte del singolo condomino: quali sono i limiti? (Cass. Civ. sez. II sent

Capita di sovente di imbattersi, nelle aule di Tribunale, in giudizi che riguardano l'uso, da parte dei singoli condomini, del bene comune.

La norma regolatrice, in tale materia, è costituita dall'art. 1102 c.c. (dettata in tema di comunione, ma applicabile anche al condominio stante il richiamo fattone dall'art. 1139 c.c.), la quale consente al condominio di servirsi della cosa comune, «purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto».

Se questo principio generale appare consolidato in giurisprudenza, nel concreto è lecito tuttavia chiedersi: sino a che punto il condomino può servirsi del bene comune senza ledere gli altrui diritti? Occorre individuare, in altri termini, i limite passati i quali deve ritenersi che l'uso privato del bene comune impedisca agli altri comunisti di trarre pari utilità dalla cosa comune.

Ebbene, a tal proposito la Cassazione ha precisato che «la quota di proprietà di cui all'articolo 1118 c.c. quale misura del diritto di ogni condomino, rileva relativamente ai pesi ed ai vantaggi della comunione; ma non in ordine al godimento che si presume uguale per tutti, come ribadisce l'articolo 1102 c.c. con il porre il limite del “pari uso” (così Cass. Civ., sez. II, 7 dicembre 2006, n. 26226).

Inoltre è stato affermato che la nozione di pari uso «non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con I diritti degli altri» (Cass. Civ., sez. II, 30 maggio 2003, n. 8808).

Quindi, a prescindere dalle quote di proprietà, ciascun condomino ha diritto di servirsi del bene comune nella sua pienezza ed interezza, consentendosi dunque anche un uso più intenso della cosa da parte di un singolo, a condizione che non ne esca pregiudicata la facoltà degli altri condomini di fare pari uso del bene.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Suprema Corte ha riconosciuto pienamente legittima l'apertura, sul muro condominiale di nuove porte e finestre, o l'ampliamento di quelle esistenti, trattandosi di interventi che di per sé non incidono sulla destinazione della cosa.

Più di recente, la portata dell'affermazione che precede è stata ulteriormente ampliata, sempre dalla Corte di legittimità, la quale ha avuto modo di precisare che «Essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell'uso, il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto» (Cass. sez. II, sentenza 03/08/2012, n. 14107).

La recente sentenza Cass. Civ., sez. II, 03/06/2015, n. 11445, ribadisce i criteri dinanzi passati in rassegna. Afferma, infatti, che «Il disposto dell'art. 1102 c.c. è nel senso che ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un'utilità - più intensa o anche semplicemente diversa da quella ricavata eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purché non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso. A tal fine il singolo condomino può apportare alla cosa comune le modificazioni del caso, sempre sul presupposto che l'utilità, che in contrasto con la specifica destinazione della medesima (Cass. 12310/11) o, a maggior ragione, che essa non perda la sua normale ed originaria destinazione (Cass. 1062/11)».

Ma la Corte, nel suo percorso argomentativo, non ha mancato di soffermarsi sui limiti che il Codice prevede anche per gli interventi intrapresi dal singolo sulla proprie proprietà esclusiva. Tali limiti, ad avviso del collegio, vanno individuati nelle disposizioni dell'art. 1120 c.c.

Tale norma infatti, nella parte in cui vieta le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico, ha individuato gli interessi condominiali che non possono essere lesi neppure con le innovazioni deliberate a maggioranza dall'assemblea condominiale. Ne consegue dal punto di vista logico che è giustificata l'applicabilità di questa norma sia alle modifiche che il singolo partecipante apporta alla cosa comune per servirsene più intensamente, sia alle attività del singolo su cosa propria comunque finalizzate all'uso più intenso della cosa comune.

Ne consegue che la realizzazione di un'opera come quella presa in esame dalla sentenza richiamata (ampliamento di un originario varco), deve ritenersi consentita al singolo condomino, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti al condominio, a condizione che non risulti violato il precetto dettato dal quarto comma dell'art. 1120 in precedenza citato.

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